Scatti di Pralormo: un anno tra immagini e parole
In questo articolo, vi presentiamo il progetto che ha dato vita al calendario di Pralormo, un viaggio attraverso immagini e testi che ci ha accompagnato ogni mercoledì dal 1° gennaio al 31 dicembre. Dietro questo lavoro c’è la passione per il nostro territorio, un amore condiviso da entrambi gli autori, pralormesi di nascita e di cuore.
Ho curato la parte fotografica, catturando l’essenza del paesaggio e dei momenti più caratteristici di Pralormo, mentre Claudio Lisa ha dato vita alle parole, arricchendo ogni immagine con un racconto che ne valorizza l’anima e il contesto. Ogni settimana abbiamo condiviso un nuovo scatto e un nuovo testo, un appuntamento costante che ha scandito l’anno, permettendo di vivere Pralormo in tutta la sua bellezza.
Delle immagini pubblicate, 12 sono state selezionate per il calendario, il cui ricavato sarà destinato a una causa speciale: i fondi raccolti andranno a sostenere i ragazzi dell’oratorio di Pralormo, aiutandoli a partecipare al Giubileo 2025.
Questo progetto, nato dall’amore per il nostro territorio, è non solo un omaggio a Pralormo ma anche un modo per fare del bene, sperando che possa trasmettere a tutti lo stesso senso di appartenenza e bellezza che ci ha ispirato.
Particolare già dalla sua stessa posizione: si erge a falso piano, ai confini del Roero, a metà tra Alba e Torino, di cui prende la provincia, restando astigiano per diocesi. Mentre i prati ne caratterizzano il territorio, degli olmi resta l’ombra solo nel nome. Di passaggio per molti, tetto per rincasare per i più, “el me pais” per chi vi è nato.
Dove si posa la neve tutto si trasforma. Pure gli uomini. Pralormo non vede spesso la neve, ma quando si incontrano, lei lo abbraccia e lo avvolge tutto, come due grandi amici.Si inizia ad invecchiare quando non si riesce più ad apprezzare la magia della neve e la si vede solo come un intralcio.Infatti i più saggi ne sanno ancora cogliere l’essenza, chiamandola “fioca”.
Quanti sentieri si snodano in un paese come Pralormo. Che poi tanto in pianura non sono neppure. Camminamenti resi meno faticosi dalla natura che li circonda. Percorsi umili nel loro contesto che, seppur appellati con nomi artificiosi come la “vie en rose”, restano fedeli alle loro origini e al loro nobile scopo: unire le “Jïere a la Vila”.
Il primo raggio di sole che riscalda la terra è il buongiorno al nostro risveglio, il si alla vita, il coraggio di una nuova avventura e la speranza in un giorno migliore. Quando questo si riflette sulle sponde di un lago, rende l’atmosfera addirittura pittoresca e trasforma l’ordinarietà del circostante in qualcosa di unico. Chissà se è un caso che da noi l’ “eva” che da vita, si pronunci come la prima donna, che la Bibbia indica come madre di tutti i viventi.
“Insieme” è l’unione che fa la forza, è la coesione di punti di vista differentiche confluisce in un pensiero unificante, sono le parti che formano il tutto. Ed è così che, visto difronte, appare il nostro paese. Unito, coeso, insieme. Ed è l’unica prospettiva che può farlo sopravvivere per consegnarlo ai nostri eredi affinché possano gustarne la sua unicità. Con l’impegno di tutti, “ansema”.
A volte ciò che resta incompiuto o deteriorato dal tempo, acquista un fascino particolare proprio perché lascia più spazio all’immaginazione dell’osservatore, che, nella parte mancante, può lavorare di fantasia. E così ciò che è antico, diventa nuovo, come per magia. O metamorfosi. E ha ancora più valore, come la nostra “ciesa veja”.
Ma se le nuvole a pecorelle, che, secondo il proverbiale detto annunciano l’arrivo di una perturbazione, per una volta scendessero dal cielo ad ammirare un gregge intento a brucare l’erba? Forse potremmo dare un senso agli eventi senza legarli ad un modo di dire, senza arrenderci difronte agli accadimenti. Che poi, in piemontese, la radice lessicale è la stessa…”Voti feje”?!…buffo, no?
Se penso ad un miracolo, penso a qualcosa di unico e scientificamente inspiegabile. Come una spina che fa lacrimare un quadro. Perché è lo straordinario che ci affascina. Mentre spesso diamo per scontato l’ordinario, finché quest’ultimo non ci viene scombinato. E pensare che in una particolarità botanica come una spina si può racchiudere l’abbraccio di un santuario, fatto da anime, prima che da mattoni. Che si erge e spunta dritto, proprio come “na spïna”.
Per camminare o correre a Pralormo c’è l’imbarazzo della scelta. Io stesso qualche volta di corsa fino a questo pilone ci sono andato e sempre di corsa sono tornato, fiero di aver mantenuto il passo. Poi mi sono detto che forse sono più saggi i camminatori perché possono apprezzare il panorama. E trovare magari una panchina vicino ad un pilone per riposare anima e corpo. Per fermarsi un attimo e fare il punto della situazione. Perché in fondo la nostra vita è una corsa continua. Ma forse, “a serviria mica tant, nà panchïina”.
Ora sappiamo sempre che ora è: basta guardare un attimo il cellulare. Ma quando anche gli orologi da polso costavano troppo per le tasche di un contadino, intento nel suo lavoro nei campi, l’unico modo per sapere l’ora era ascoltare i battiti del campanile. Ed erano gli stessi battiti che annunciavano le fasi della vita: occasioni di festa come matrimoni o trapassi di anime conosciute. Battiti che univano la terra al cielo. E anche oggi lui sembra unire il parallelismo delle vie del paese con le scie nel cielo. In modo retto, restando fermo, senza ipotizzare bizzarri complotti. Battiti del nostro “ciuchè”.
Saper attendere non è mai stato facile. Ci vuole pazienza e tenacia per farlo. Lo sanno bene le donne in gravidanza, gli sportivi, i contadini e i pescatori. Questi ultimi sanno stare ore a bordo del lago aspettando un movimento dell’amo. Però l’attesa paga. Sempre e comunque. In un mondo a portata di click, le qualità che pagano sono altre come l’immediatezza e la prontezza. Non c’è spazio per l’attesa. Eppure basta imparare a stare lì, “an sa riva” per poter ammirare il colore dei fiori che si specchia in un lago di nuvole rosa. Anche con la rete vuota.
A Pralormo il binomio “castello – fiori” è consolidato da decenni. Ma prima ancora dei bulbi piantumati, la natura da sempre offre specie spontanee che, se immerse in un contesto storico, assumono un fascino particolare. Unico, bello. Ed è proprio la bellezza la salvezza del mondo. Saperla cogliere e poi goderne è capacità solo di anime pure: in italiano, così come in piemontese, “bel” fa rima con “castel”. E “fiur” con “pur”.
Sono sempre stato incantato nell’osservare il dipinto del soffitto del santuario. Una schiera angelica che esce dal cielo sconfinando sulla terra. Forse a voler diminuire la distanza tra la nostra umana esistenza e l’eternità del cielo. A ricordarci che stare ogni tanto con lo sguardo all’insù non significa essere scansafatiche ma saper cogliere il vero senso della vita per conoscere meglio se stessi. Ci vuole davvero poco per passare da “chiel” a “ciel”.
Quando un fiore sboccia si ripete il miracolo della vita. Se poi si tratta di un fiore elegante e raffinato come il tulipano, la meraviglia aumenta. Messer Tulipano ha colorato Pralormo e lo ha reso famoso proiettandolo verso il mondo. Come il gambo proietta i petali del tulipano verso l’immensità del cielo. Non resta che ammirare. “Beica”, appunto.
Il cielo che si colora di rosso può essere tanto la mattina monito di maltempo imminente, quanto la sera auspicio di miglioramento climatico per il giorno successivo. Lo dicono i proverbi. Il rosso d’altronde è da sempre il colore del sentimento passionale: dal sangue all’amore tutto si tinge di rosso. Che poi la radice del termine indichi l’intensità di una rosa rossa o di un rossetto, non fa la differenza. Basta “cà sia rüs”.
“A te, o Maria, volgo la mia prece”. Pare sentire pronunciare queste devote parole da un passante o un contadino intento a tornare dalle fatiche giornaliere. O, nel mese di maggio, da gruppi di rosarianti che sono soliti riunirsi attorno ad uno dei numerosi piloni votivi che costellano il territorio pralormese. Il termine stesso che definisce questa preghiera mariana in piemontese, sembra voler sottolineare la ripetitività di un gesto di fede, che si racchiude in un “rünsari”.
Cunicoli e gallerie hanno da sempre un fascino misterioso. Nella letteratura, prima, e nella cinematografia, poi, celano passaggi verso mondi immaginari segreti. Nei castelli, il luogo predisposto per la servitù. A me, personalmente, incutono un misto tra curiosità e timore. Mi affascinano e spaventano. Comunque distolgono l’attenzione dalla realtà proiettando la fantasia verso qualcosa di magico. Infondo basta pronunciare la parola per sentire come l’incipit di un antico incantesimo: “pertùs”.
“A te, o Maria, volgo la mia prece”. Pare sentire pronunciare queste devote parole da un passante o un contadino intento a tornare dalle fatiche giornaliere. O, nel mese di maggio, da gruppi di rosarianti che sono soliti riunirsi attorno ad uno dei numerosi piloni votivi che costellano il territorio pralormese. Il termine stesso che definisce questa preghiera mariana in piemontese, sembra voler sottolineare la ripetitività di un gesto di fede, che si racchiude in un “rünsari”.
“En saüt” oltre a ricordarci l’intercalare degli stranottisti sul carro alla festa patronale, può ben indicare la frenesia della vita quotidiana che ci porta a rapporti sempre più concisi e veloci. Ma è anche simbolo di cambiamento e senza salti non si possono superare gli ostacoli. Chi salta senza apparente motivo, infine, o è matto o è innamorato. Come un capriolo, libero e felice di vivere.
I dipinti raccontano avvenimenti meglio delle parole. Le immagini che rappresentano parlano e a volte urlano, a voler chiedere di ricordare avvenimenti di vite di santi, costellate solitamente da poche gioie e tante sofferenze. Ma queste personalità hanno saputo trasformare il male in bene, in virtù, proprio del loro santo carisma. E tutto questo lo hanno fatto in silenzio, lontani dai riflettori. La gloria celeste che ne hanno ricevuto, li ha resi tutti uguali, senza distinzione alcuna. Forse è per questo che in dialetto “sant” si addice sia a un nome femminile come ad uno maschile.
Mi ergo a proiezione del cielo in terra, quasi a sfidare la gravità per dimostrare che osare è vivere, andando oltre ciò che sembra scontato. E quando le avversità del tempo mi mettono alla prova, posso perdere la mia essenza, senza cedere completamente. “Porta parej”, sento ripetere con rassegnazione. Resto inerme, di me il ricordo di tempi passati, mentre tutto scorre e nulla torna come prima.
“Pasa da si” è l’invito che sembra fare la scritta che compone la rotonda all’ingresso del nostro paese. Un benvenuto personalizzato e un arrivederci caloroso. Grazie a chi l’ha voluta e realizzata. Non importa se visiterai il paese o sei solo di passaggio, quella scritta, in ogni caso, allieterà il tuo viaggio. “Pasa da si”.
Quando una giornata volge al termine rappresenta la fine delle nostre responsabilità quotidiane e, in estrema sintesi, della nostra vita. L’eterno riposo è l’ultimo umano saluto che noi traduciamo in “a là sunà da mort”. I rintocchi, come il battito del cuore che si proietta verso il meritato riposo, sembrano spaccare il silenzio. Al termine, lo stesso silenzio fa più rumore.
Quando si va in bici, si cammina o si corre si strade sterrate da conforto trovare una costruzione, da senso si vita, di umano e fa sentire meno soli durante il percorso. Anche se non si trova nessuno intento al lavoro agricolo, la costruzione stessa indica un punto fermo. Non serve tanto, basta un semplice “ciabot”.
La chiamiamo tutti “ciesa veja” soprattutto per distinguerla dalla attuale parrocchiale. Ma la sua presenza, ricordandoci il passato, che, per quelli come me e più giovani, resta immaginato dai racconti di genitori e nonni, porta con sé un segno di speranza verso il futuro, una sorta di filo continuo nella storia della nostra comunità. Come il cielo colorato di rosso la sera.
Quante giornate passate a “rastlè la paja” rigorosamente a mano dietro l’imballatrice, guidata da mio zio o mio nonno. Dal grano nasce la farina, e poi il pane. Il grano è vita e da sempre ha un valore di scambio. Ma la maggior parte della pianta del frumento è paglia, non granella. Serve per creare le cuccette per i bovini in stalla. Considerarla di minor importanza non significa sottovalutarne la funzionalità. Nulla è inutile nel creato.
“Süta al coj” o “pürtà da la cicogna” sono due delle curiose leggende locali sul mistero della nascita di un bambino. Mentre il cavolo è un ortaggio che cresce anche nei periodi più freddi, di maggior avversità climatica, garantendo appunto vita, la cicogna resta un uccello attirato dal calore di un camino accesso per creare la giusta temperatura per la presenza di un neonato in casa. E così su quel camino la cicogna faceva il nido, che rappresenta la vita. Due leggende, due aneddoti, ma un solo grande significato: la vita!
Osservare di nascosto resta uno tra i peggiori difetti dell’uomo: la curiosità. È quasi impossibile esserne esenti. “Beichè” significa appagare la propria voglia di sapere senza farsi vedere, correndo, quindi, il rischio di mal interpretare ciò che si vede. E poi bisogna diffondere la notizia di ciò che si è visto. Non ha solo accezione negativa, il curiosare, ad esempio senza curiosità la scienza stessa non esisterebbe e non si sarebbe evoluta nelle moderne sue sfaccettature. A pensarci bene, senza un pizzico di curiosità, neppure l’annuncio pasquale della risurrezione del Cristo, non sarebbe stato regalato al mondo.
Ogni volta che osservo un tramonto mi sembra ancora di sentire riecheggiare l’invito di mia nonna, quando, finiti i lavori in campagna, guardando il sole calare mi ripeteva “cür, và a deje en toc ed pan, parej a türna düman”. Perché il pane è vita e pure il sole è vita. E la speranza, ad ogni tramonto, è che la vita continui. Con la luce del sole, che illumina e cancella le tenebre.
Nel pilone a lui dedicato ci si ritrova il 7 agosto in occasione della festa patronale, a cui ci si prepara con una novena. Nove sere per venerare il vescovo d’Arezzo, a cui la nostra parrocchiale è dedicata. Se può sembrare tanto tempo, nove sere, una processione e una messa, forse, dovremmo pensare che nel suo stesso nome si racchiude il significato piemontese della gratuità. Prega per noi, san “Dünà”.
Solo quando fa caldo ci si rende conto dell’importanza dell’acqua. E pensare che noi esseri umani siamo fatti di acqua per quasi l’ottanta per cento del nostro corpo. Ma per vivere ci serve anche il calore del sole, in grado di far sintetizzare la vitamina D attraverso la nostra pelle. Il Sole è poi l’unica stella riferimento di tutto il sistema solare. “Eva” e “sül”: un binomio imprescindibile per la vita.
Quando un imprevisto, un’avversità piombano nella nostra vita sono in grado di rivoluzionarla, stravolgendo la quotidianità. Le difficoltà pungono come spine e ci fanno apparire il mondo capovolto: ciò che prima era scontato, ora appare di estrema importanza. Possiamo imparare dai momenti di maggior fragilità a non arrenderci, ad affrontarli come “na stisa ansimä na spïna”.
L’arsura e la siccità di un’annata non pregiudicano assolutamente l’annata successiva: in questi ultimi anni lo abbiamo capito bene. Ciò che appare come una disgrazia, una vera e propria calamità può farci scoprire parti invisibili prima sommerse dall’acqua. Questo i nostri vecchi lo sapevano bene e, con le loro sagge parole, lo esprimevano in dialetto indicando la vita come il susseguirsi di eventi fasti e meno. D’altronde, “döp an temp aj na ven sempre naüt”.
La festa civile del nostro patrono San Donato vuole un carro e degli stranottisti che salgano sopra per allietare la popolazione riunita sul sagrato della chiesa parrocchiale con i loro versi in dialetto. Quando si sale li sopra tutto è permesso, vi è una sorta di “licenza a dire” sulle questioni più rilevanti che riguardano il paese. Lo si fa in modo ironico, ma si sa che la verità detta col sorriso arriva dritta al cuore. Forse è anche per questo che si affida il tutto a un componimento dialettale, tanto atteso quanto temuto. E tutto appare appunto anticonformista, come solo uno “stranöt” sa essere.
Il palio dei borghi è una settimana di competizione e collaborazione, sfida e complicità, divertimento e strategia, fortuna e tattica. Cinque borghi, tanti giochi per gareggiare, dal calcio pralormese, alla gara al punto, passando per ideazioni originali come “non sbroccare” e “il tempo delle mele” fino a scala 40, il quizzone e gare più tradizionali come la staffetta, la corsa campestre e il sempre atteso lancio dell’uovo. Tutto per conquistare il primato del borgo migliore. Cinque colori che allietano il paese per otto giorni di manifestazione. Cinque tonalità cromatiche che stanno tradizionalmente insieme nell’arcobaleno. Come i cinque borghi che insieme formano Pralormo. Cinque “culùr dì bürg”.
I mattoni a vista con cui sono stati costruiti i piloni votivi, che caratterizzano il nostro territorio, sembrano richiamare le nuvole rosee del cielo estivo. Queste nuvole sembrano dipinte nel cielo, se climatologicamente non sono altro che condensa atmosferica, possono apparire come tratti di un pennello. E, tutte insieme, definiscono la volta celeste. La caratterizzano. Ne sono elementi fondamentali. Come i mattoni del pilone, che, assemblati con la calce, ne conferiscono la forma e la robustezza. Solidi, come il loro nome dialettale indica: “mün”.
L’idraulica agraria la definisce bacino artificiale di raccolta dell’acqua piovana adibito insieme a fonte di irrigazione di coltivazione orticole e agricole e allevamento di pesci d’acqua dolce, come l’autoctona Tinca gobba del Pianalto. Il terreno argilloso delle nostre campagne è ideale per permettere di arginare la raccolta d’acqua senza che venga persa per permeabilità. Sembra così tutto creato al fine di consentire che questi bacini caratterizzino quasi in modo spontaneo il nostro territorio. E il modo più artistico per immaginarli sembra essere proprio quello che indica la radice del termine dialettale: un uomo, seduto su un trampolino rudimentale intento a tenere in mano una canna da pesca. Sul bordo di una “pëschèra”.
L’imbrunire, tipico del cambio di stagione, rende sempre spazio a nuove atmosfere. A settembre, la luce naturale del sole lascia spazio a quelle artificiali degli edifici, dei lampioni e delle auto che passano sulle strade. E tutto assume contorni e forme diverse: sembra quasi acquisire un fascino nuovo. Le luci della sera ci accompagnano verso la notte creando un’atmosfera particolare. Diversa dal giorno, ma ugualmente viva. Tutto nuovo, insomma, “ed sèirä”
“Beica bin” era solito ripetermi mio nonno quando dovevo cercare un attrezzo agricolo nell’officina nella sua cascina. In quell’imperativo dialettale c’era l’invito a non trascurare alcun dettaglio nel tentativo di tornare da lui con quello che serviva. Come davanti ad un paesaggio come il nostro lago da Spina, che è in grado di riflettere nelle sue acque tutta la vegetazione che lo circonda e il cielo che lo sovrasta. Facciamo nostro l’invito a osservare con attenzione ogni dettaglio di questo meraviglioso dipinto naturale e vivo. Ne resteremo affascinanti.
Perché i piloni votivi sono stati costruiti su una strada in prossimità di un incrocio? Se l’intento fosse stato di separare le corsie di marcia, bastava un semplice spartitraffico. Ma mi piace pensare che volutamente siano stati realizzati in quel posto per dire qualcosa a chi passa. Un richiamo a ricordare che nella strada della vita, nei momenti in cui ci si trova ad un bivio e bisogna scegliere quale direzione sia meglio seguire, c’è chi ci aiuta, chi ci può illuminare a volerci ripetere che non siamo soli. Messi proprio “en tel mes d’la strà”.
Io personalmente ho scoperto da poco l’esistenza di questo “sentiero delle beatitudini” e mi ha colpito la particolarità di aver dato un senso ad un sentiero. È come se, acquisendo un significato, non solo uscisse dall’anonimato di una strada qualunque, ma si trasformi da sentiero a percorso, da strada a cammino di vita. Ora che lo abbiamo, tocca a noi sperimentarlo. E, secondo me, capiremo che non è solo una qualunque “strà”.
Io personalmente ho scoperto da poco l’esistenza di questo “sentiero delle beatitudini” e mi ha colpito la particolarità di aver dato un senso ad un sentiero. È come se, acquisendo un significato, non solo uscisse dall’anonimato di una strada qualunque, ma si trasformi da sentiero a percorso, da strada a cammino di vita. Ora che lo abbiamo, tocca a noi sperimentarlo. E, secondo me, capiremo che non è solo una qualunque “strà”.
“Amdüma al santuari” per noi pralormesi significa recarsi alla Spina. Un punto di riferimento per l’unicità del luogo sul nostro territorio, resa ancora più evidente dal fatto che è uno dei due santuari di suore di clausura piemontesi. Il nome stesso “santuari” può ricordare la cadenza della recita di un “rünsari”. Non a caso imfie termini hanno lo stesso suffisso. E, chissà, mentre noi ragioniamo su tutto questo, la luna, che vive più di emozioni che di razionalità, osserva il santuario dall’alto, benedicendolo
Che strano associare la morte con la vita, nella lingua italiana si parlerebbe di ossimoro, associazione, appunto, di due termini contrapposti. Ma c’è il ricordo di chi ha vissuto con onore. Ed è proprio il ricordo che permette di mantenere in vita i morti. È come se durante una corsa si cadesse e, grazie all’allenamento e alla forza di volontà ci si riuscisse a rialzare e riprendere a correre. Forse è per quello che in dialetto il termine ” cadü’ ” sembra indicare non solo una morte ma una successiva ripresa, segno di vita, nel loro ricordo.
Mi ricordo che quando sono venuti a mancare i miei nonni, inevitabilmente, oltre ad un pezzo del mio cuore, si è definitivamente chiusa la porta della loro abitazione. Una casa dove sono praticamente cresciuto, dove ho trascorso gli anni dell’asilo, i pomeriggi delle elementari e medie, quando, tornato da scuola, dopo pranzo, andavo ad aiutarli nei lavori stagionali in campagna, mentre d’estate stavo praticamente fisso da loro per imballare paglia, fieno e bagnare i campi di mais. È come se, chiudendo quella porta e quella finestra, si potessero conservare all’interno i ricordi di tempi passati, che hanno segnato la mia vita. Mentre, crescendo, si guarda ad un futuro a tratti incerto. Ma sono proprio quei ricordi a dare forza per vivere con la speranza. “As sarä nà porta” dove il verbo “sarä” ha le stesse lettere di ciò che “sarà”.
“La casinä” è ciò che meglio rappresenta l’idea di famiglia tradizionale piemontese. Non è solo un’abitazione ma un legame di sangue e di affetti che identifica l’unità base della società contadina di un tempo. C’erano mamma, papà con numerosi figli, c’erano i barba (gli zii da maritare), le magne (le zie dirette o acquisite), i nonü. Si viveva insieme con rispetto. E si cresceva nell’idea di non essere soli. Si aveva meno di oggi, ma si era, paradossalmente, più sereni. Il lavoro fisico era il denominatore comune alla vita di tutti i giorni. I ritmi delle stagioni dettavano i lavori nei campi. Tutto acquistava senso attorno a la “casinä”
Andare a governare gli animali al pascolo era un lavoro che oggi si vede raramente. Nonostante il fatto che gli studi di zootecnica confermino i vantaggi del pascolo, praticarlo è molto oneroso da tanti punti di vista. Ma soprattutto c’è il lavoro paziente e silenzioso di chi deve accudire i capi al pascolo. Il pastore non è un mestiere ambito. Eppure il testo dei vangeli ci racconta presenta proprio i pastori come le prime persone a cui l’angelo diede l’annuncio della nascita del Messia. Forse perché nella staticità del loro lavoro sono coloro che meglio rappresentano un punto di riferimento fermo e stabile. Quasi quasi è invidiabile poter stare un po’ “an pastüra”.
Saper arrivare al succo delle questioni, nei discorsi, così come nella vita, è una capacità che va imparata e coltivata, non è innata. Ne consegue chiarezza. Il nòcciolo è la parte più interna del frutto. La “ninsöla”, invece, una pianta che può insegnare l’essenzialità, grazie alla quale sa resistere anche sotto una coltre nevosa.
Nel dialettale “Crüs” si racchiude la potenza del “guardare”, del saper scrutare per arrivare oltre. In netto contrasto con il “vedere” tipico della fretta caratterizzante la nostra società, dove solo l’apparenza conta, misurata a suon di likes e followers. La staticità e l’impotenza dello sguardo del nostro Cristo, che, dall’alto della maestosa croce parrocchiale, rivolge il suo sguardo compassionevole per amare questa umanità nella sua fragilità, trasformano questa contrapposizione in complementarietà.
La fine di un anno è come la fine di un giorno, quando le ombre scendono per lasciar spazio al chiarore lunare. E si illuminano tante stelle, come le luci nelle casette del presepe. E tutto appare rallentato e assume un aspetto più delicato, avvolto nel silenzio della notte. Tutto più sottile, riassunto nel termine”fin”.